La politica economica

 

 L’ambiente economico in cui si instaurano i due regimi li differenzia profondamente. Mentre il comunismo si sviluppa in una società dove il processo di modernizzazione e di industrializzazione è appena iniziato, e si assume esso stesso il compito di accelerare questo processo, la Germania nazista era una regione in cui l’industrializzazione era già avanzata, e quindi lo scopo del Führer non fu che quello di mobilitare e piegare ai propri fini questo tipo di società.

Come già sottolineato, il successo del nazismo è legato alla situazione economica successiva alla grande crisi degli anni Trenta. Fu proprio la ripresa economica, infatti uno dei fattori principali di consenso: superato il momento più acuto della crisi, già nel ’33 l’economia tedesca, liberata dal peso delle riparazioni, riprese progressivamente slancio. Il piano di preparazione alla guerra, affiancato dal programma di lavori pubblici, approntato da Hitler subito dopo la presa del potere, ebbe indubbiamente l’effetto di rendere molto rapida la ripresa.
Il regime nazista attuò quindi una politica economica in fondo non molto diversa da quella messa in atto da Roosvelt negli Stati Uniti: abbandonando i programmi anticapitalistici del primo nazismo, il regime cercò di incoraggiare in ogni modo l’iniziativa privata e al tempo stesso di legarla al potere politico, di vincolarla ad alcuni obbiettivi di fondo, che si riassumevano nel porre il paese in condizione di affrontare una guerra.

In questo quadro quindi il regime nazista agì in perfetto accordo con la grande industria e con la grande proprietà terriera e si limitò a imporre una serie di norme che tutelavano la piccola e media proprietà terriera, senza intaccare i latifondi.

La politica economica sovietica fu invece di tendenze opposte, dovute essenzialmente alla sua condizione di isolamento economico che avevano risparmiato l’Urss dagli effetti della grande crisi, ma allo stesso tempo la obbligava ad un gigantesco sforzo di industrializzazione. Il fine di Stalin era quello di rendere l’Urss una grande potenza militare, in grado di competere con le grandi potenze capitalistiche, ed egli credeva che questo potesse avvenire solo grazie ad un deciso impulso all’industria; per fare ciò era necessario che lo Stato acquisisse il controllo completo dei processi economici, anche a costo di rompere la relativa tregua sociale.

Stalin proclamò quindi la necessità di una completa collettivizzazione del settore agricolo, che doveva necessariamente accompagnarsi all’eliminazione dei kulaki, i contadini benestanti accusati di arricchirsi alle spalle del popolo e di affamare per conseguenza la città. Quello dei kulaki fu un vero e proprio sterminio.

Vero scopo di questa collettivizzazione era lo spostamento di risorse economiche e di energie umane che favorivano l’industrializzazione, varato nel primo piano quinquennale per l’industria del 1928. Tecnicamente gli obbiettivi di questo erano impossibili da raggiungere, ma il successo fu comunque evidente, grazie alla mobilitazione ideologica che Stalin fu capace di suscitare nella classe operaia intorno agli obbiettivi del piano e che permise ai lavoratori dell’industria di sopportare sacrifici pesanti, come il gigantesco prelievo di ricchezza a spese dell’intera popolazione, necessario alla concentrazione di risorse.

In ogni caso il paese nel giro di un decennio riuscì quasi a triplicare il volume della produzione industriale e quasi a quadruplicare il numero degli occupati, in decisa controtendenza rispetto ad un universo economico che vedeva calare la produzione e crescere la disoccupazione.