IL METODO DI LAVORO ATTUATO DALLO SCULTORE

 

"II Canova", scrive il pittore Francesco Hayez (Memorie, 1890), "faceva in creta il suo modello; poi gettatolo in gesso, affidava; il blocco a' suoi giovani studenti perché lo sbozzassero e allora cominciava l'opera del gran maestro. [...] Essi portavano le opere del maestro a tal grado di finitezza che si sarebbero dette terminate: ma dovevano lasciarvi ancora una piccola grossezza di marmo, la quale era poi lavorata da Canova più o meno secondo quello che questo illustre artista credeva dover fare. Lo studio si componeva di molti locali, tutti pieni di modelli e di statue, e qui era permessa a tutti l'entrata. Il Canova aveva una camera appartata, chiusa ai visitatori, nella quale non entravano che coloro che avessero ottenuto uno speciale permesso. Egli indossava una specie di veste da camera, portava sulla testa un berretto di carta: teneva sempre in mano il martello e lo scalpello anche quando riceveva le visite; parlava lavorando, e di tratto interrompeva il lavoro, rivolgendosi alle persone con cui discorreva".

 


primi studi in terracotta di Amore e psiche giacenti

 

Come risulta anche da questa vivace descrizione, l'attività nello studio era rigorosamente organizzata, in modo da consentire all'artista il controllo e la verifica dei risultati in ogni fase del lavoro. Dal bozzetto in creta dove si fissava la prima intuizione (tuttavia anticipata dai disegni e talvolta dai dipinti), Canova passava ad un modellino che gli permetteva uno studio più approfondito, un'ulteriore messa a fuoco dell'invenzione; si procedeva quindi a realizzare il modello in creta, grande al vero, avvalendosi di uno scheletro portante composto da un'asta in ferro, alta quanto l'opera da eseguire, e collegata a più piccole aste metalliche munite alle estremità di crocette di legno.

 


disegno a penna di Ercole e Lica

 

Questo nuovo metodo, ideato da Canova e applicato fin dal tempo del monumento di Clemente XIV, permetteva (come egli stesso precisa in una lettera al bibliotecario Daniele Francesconi) "di far reggere la creta anche in macchine grandi assai, e in figure fuori di piombo". Esso offriva il vantaggio di poter valutare fin nello studio, e prima di por mano al marmo, le proporzioni, le incidenze luminose, l'effetto generale dell'opera.

 


modello in gesso di Ercole e Lica

 

Lo stesso Canova ne dà una precisa giustificazione in una lettera a Quatremère de Quincy (17 gennaio 1810): "L'avversione che ho sempre avuta al modo di lavorare al gesso o sia in stucco, conoscendo dimostrativamente che il lavoro in quella materia riesce sempre duro e stentato, questo appunto mi ha fatto risolvere, sino da' miei primi anni, ad attaccarmi alla creta. E di fatti ho avuto la temerarietà d'intraprendere i modelli delle statue del Monumento Ganganelli, della stessa grandezza: cosa non più accostumata in Roma prima di quell'epoca, mentre tutto lavoravansi nello stucco, quando dovevano fare un modello poco più grande della metà del vero".

 


versione finale in marmo di Ercole e Lica

 

II passaggio dal modello in creta a quello in gesso si attuava con la tecnica della "forma persa". La creta modellata, rivestita da un leggero strato di gesso rossigno, veniva ricoperta da uno strato di gesso bianco. Asportata la creta, si colava il gesso all'interno della "matrice", che veniva infine distrutta, procedendo con la massima cautela al comparire dell'intonaco rossigno. Dopo aver fissato sul modello così ottenuto i "punti" chiave, i lavoranti dello studio procedevano alla sbozzatura del marmo; l'opera quindi veniva trasferita nella stanza di Canova per ricevere quella ch'egli stesso e i contemporanei chiamano "l'ultima mano": fase importantissima del lavoro esclusivamente riservata all'artista, che dava gli ultimi tocchi a lume di candela. Da ultimo interveniva il "lustratore" che, lavorandovi più giorni, conferiva al marmo una diafana lucentezza. Canova usava anche stendere sulle parti epidermiche una speciale patina: sì sarebbe trattato, secondo alcuni, di pietra pomice o di una tintura giallognola; di "fuliggine" per il Fernow (1806); "pura cera" e "acqua elaborata dallo speziale" per G. B. Sartori; "acqua di rota" (cioè l'acqua sporca delI'arrotamento degli strumenti metallici) per il Cicognara.

 


modello in gesso della Danzatrice col dito al mento

 

Lo scultore stesso ne parla in una lettera a Quatremère de Quincy (14 settembre 1805): "vi posso assicurare che io ho lasciate diverse opere mie senza encausto, avendovi solo passato sopra, col pennello, dell'acqua della ruota su cui si aguzzano li ferri del lavorare; e ciò con buon effetto in quanto all'apparenza. [...] Ma bisogna sempre premettere che il lavoro sia bene finito e ridotto alla possibile perfezione. A dirvela netta netta, io ho costumato più volte di dare l'encausto con polvere di cera stemperata a pennello nello spirito di vino, e la cosa mi è riuscita a meraviglia. Altre volte ho fatto [...] diversamente, come davami il capriccio".

Fra i primi a parlarne è il Marchesini nel 1795 il quale, a proposito del gruppo Venere e Adone, nota la diversità di tono fra il panno bianco e i corpi (Biblioteca, 1823). Lo scopo, comunque, è di anticipare possibilmente gli effetti del tempo, il quale sovente dà alle opere quell'accordo e quell'armonia che l'arte può difficilmente imitare (Missirini, 1824). Della patina non rimane oggi più traccia; tuttavia sembra che questo finale intervento sul marmo non rivestisse eccessiva importanza. Fondamentale, invece, per la qualificazione estetica dell'opera è l'accuratezza dell'ultima mano.

A illustrarne il valore converrà riportare un brano del Cicognara (1823) che bene puntualizza le fasi e il significato del metodo di lavoro del Canova. "E convien dire che non erano in uso allora le pratiche che a poco a poco egli stesso andò introducendo, cioè di valersi delle braccia subalterne per digrossare i marmi fino all'ultimo strato di superficie, il che fu da lui immaginato con perfezionare all'ultimo grado i modelli sulla grandezza in cui debbe condursi il marmo, onde mediante l'esattezza dei punti e delle misure potesse meccanicamente avanzarsi il lavoro: l'ultima mano però fu sempre da lui posta alle opere sue, portando con questa ì sassi a quella morbidezza, a quella dolcezza di contorni, a quella finezza di espressione, che inutilmente si è cercata e difficilmente si troverà nelle opere de' suoi contemporanei; e la somma distanza che rimarrà fra questi e il Canova pare verrà segnata particolarmente da queste ultime finezze dell'arte, alle quali non potrà giungere mai chi non è addimisticato al maneggio dei ferri, e crede raccomandar la sua gloria alle braccia subalterne de' lavoratori. L'ultimo passo nelle arti, e le minime differenze sono quelle che costano il più di sudori, e portano ai sommi risultamenti; e in questo si ammirò l'insistenza di Canova sino nell'ultima delle sue opere".

Lungi dal consistere in un banale "ultimo tocco" a opere praticamente finite (come opinavano, ad esempio, Fernow e Stendhal), "l'ultima mano" è, in sostanza, un suggello d'autografia; ed è in questa fase essenziale che Canova apporta le più decisive modifiche rispetto al modello in gesso. Per questa ragione non è lecito assegnare allo scultore, se non per l'ideazione del motivo, i marmi rimasti incompiuti nello studio alla sua morte.

Per conseguire l'effetto di "finito" e la straordinaria gradazione di passaggi che caratterizza le sculture, l'artista si serviva di una quantità di nuovi strumenti (ch'egli riteneva simili a quelli adoperati nell'antichità): "ad agevolarsi la via a questo fine, inventato ei s'avea nuovi ferri, e raschiatori, e trapani, e punte d'ogni maniera, ed ogni parte col suo particolare ferro riduceva" (Missirini, 1824).E' probabile che, nel suo complesso, questo sistema di lavorazione derivi dalla pratica dei copisti romani di statue antiche (Honour, 1972). Esso privilegia, comunque, il momento iniziale dell'ideazione e quello finale con l'intervento diretto e conclusivo dell'artista sul marmo, risolvendosi in un rigoroso processo di "sublimazione" dell'immagine: dalla violenza della prima intuizione, captata in segni che smarginano nell'informe, si approda alla contemplata serenità della pura forma, secondo un percorso che, con terminologia idealistica, promuove il passaggio dall'"io empirico" all’"io trascendentale". Tutto questo è possibile grazie alla trasformazione di una serie di pratiche artigianali in una "scienza esecutiva" (Missirini); la tecnica, in sostanza, diventa "metodo" inerente al processo creativo: un metodo che esige concentrazione e riflessione, contro l'avventura dell'improvvisare e il "capriccio" cui sembrava si fossero abbandonati gli artisti rococò. "[...] Lo scalpello procedeva coi metodi del pennello; e compiuto un lavoro eravi poi 'Ira la creta e il marmo quella differenza, che nella pittura passa fra il cartone e la tavola", annota il Missirini, che riferisce anche queste parole del Canova: "Or bene: io mi vo' adoperare colla lima tanto, che arrivi ad ottenere senza il colore l'effetto del colore stesso, e far che [l'opera] sia più bella e più rida". Evidentemente la cura infinita con cui lo scultore rifiniva ogni suo lavoro non mirava a effetti virtuosistici, quanto piuttosto a conferire all'immagine una definitiva autonomia, una vita propria, fissata in quel punto estremo in cui lo spazio dell'esperienza rifluisce nella dimensione dell'ideale.

Canova non ha avuto, né ha voluto allievi: non si possono infatti considerare tali i lavoranti dello studio. Ciò può apparire quantomeno singolare se si considera l'opera di aiuto da lui prestata incessantemente a favore delle belle arti, delle accademie e degli stessi artisti bisognosi. La ragione, allora va indicata nel fatto che egli era consapevole che, se poteva insegnare un metodo di lavoro, non poteva invece trasmettere il segreto della sua arte. In questa coscienza dell’originalità dell'artista, della singolarità di ogni sua espressione, si può rilevare un connotato non secondario della modernità del Canova.